31 Gennaio 2022 / Humus Job / Rete

Collaborare fa bene a mente e corpo

Come abbiamo raccontato nell’articolo “Chi fa da sé fa per tre” o “l’unione fa la forza”?, i modelli economici competitivo e cooperativo hanno notevoli differenze – nelle origini, nella declinazione pratica, negli obiettivi che perseguono.

Non è un caso che Humus Job abbia scelto di operare nel campo del secondo modello e, quasi un anno fa, abbia lanciato la prima rete d’impresa agricola nazionale: crediamo fortemente nel potere generativo e positivo della collaborazione.

Con questo articolo, vogliamo provare ad analizzare l’approccio collaborativo – e il fare ed essere rete – da un punto di vista psicologico sistemico e osservare i benefici che traggono comunità, persone, imprese che seguono questo modello.

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© Brad West _ Unsplash

Per “sistema” (dal greco systéma, da syn-ìstemi, stare insieme) si intende un’unità intera e unica composta da parti in relazione tra loro e tendenti all’equilibrio; un intero diverso dalla semplice somma delle parti e in cui il cambiamento di una di queste influenza la globalità del sistema. Ogni elemento di un sistema è in relazione con gli altri elementi, e ha una ragione d’essere per la specifica funzione che svolge. 

Può essere utili riprendere alcuni principi fondamentali del modello sistemico, elaborati originariamente da Gregory Bateson e dal Gruppo di Palo Alto negli anni ‘50 e sviluppati più recentemente dalla seconda cibernetica, dal costruttivismo e dal costruzionismo sociale.

Principi che ritroviamo nelle reti, nei sistemi collaborativi, nei gruppi, in tutte le relazioni umane e che, se sono consapevoli e giustamente valorizzati, permettono di costruire sistemi sociali funzionali e benefici.

© Hannah Busing _ Unsplash

L’essere umano è un animale sociale e, in quanto tale, necessita del contatto e della relazione con i propri simili (e non solo). Le relazioni ci influenzano costantemente, a partire dalla nascita e ancor prima, sono nella storia di cui ciascuno di noi è portatore.
Possiamo passare dal concetto cartesiano del “cogito ergo sum” a quello sistemico del “mi relaziono e dunque sono”. 

O meglio, ci relazioniamo e dunque siamo. Frase che permette di passare da una visione del singolo come monade isolata a quella di persone interconnesse.
Infatti, questo concetto mette al centro la relazione e si contrappone fortemente ai modelli centrati sull’individuo. 

Non significa mettere tra parentesi gli individui bensì riconoscere la centralità della componente relazionale ed interattiva, salvaguardando e valorizzando l’identità distinta dei singoli.

Un altro elemento fondante la teoria sistemica è quello della circolarità: gli eventi non seguono una logica, una causalità lineare bensì, all’interno di un sistema, si influenzano reciprocamente al punto da rendere molto complesso stabilire cosa è causa e cosa è effetto.
Sostanzialmente, pensare in modo circolare significa porre l’attenzione sull’interdipendenza e tenere in considerazione di quanto i comportamenti umani si influenzino reciprocamente.

Ulteriore elemento pregnante della teoria sistemica è il ruolo della comunicazione che non viene intesa come mero scambio di informazioni bensì come costruzione condivisa di significati.
Ogni individuo ha fantasie, idee, sensazioni, modelli di riferimento, convinzioni, pregiudizi, pensieri preesistenti personali. Tutti questi pensieri preesistenti entrano in gioco quando nell’incontro con l’altro e lo condizionano. La relazione diventa dunque un incontro tra premesse differenti da cui co-costruire nuove narrazioni, modi di agire e sentire, significati nuovi.
Una comunicazione va dunque ben oltre il semplice scambio informativo perché chiama in causa la capacità di entrare in relazione con l’interiorità dell’altro, nella sua differenza.

Affinché fra due persone ci sia un buon ascolto e la comunicazione produca una costruzione condivisa di significati, giocano un ruolo importante coinvolgimento, mutua ricettività agli stati intenzionali dell’altro e la dimensione del futuro che porta con sé, necessariamente, l’esperienza dell’attesa, del dubbio, dell’incertezza

Vi è, nelle relazioni, una grande permeabilità ed è proprio questa condizione che fa sì che la vita mentale del singolo sia co-generata a partire dalle interazioni con gli altri.
Una condivisione di sentimenti, la capacità di sentire l’altro con la propria pelle, l’empatia, sono all’origine dell’attenzione bilaterale tra gli individui genera ma anche l’effetto di quest’ultima (a proposito di circolarità).

La relazione si costruisce inoltre sul coordinamento tra differenti ruoli, interconnessi e interdipendenti, ognuno con le proprie caratteristiche e la specifica declinazione nei comportamenti e nelle azioni. In una relazione sufficientemente buona, ciascuno comprende il ruolo altrui e si comporta di conseguenza generando un gioco di squadra positivo, cooperativo.

Perché ciò accada, però, è necessario coltivare la tolleranza, superare pregiudizi e stereotipi, essere disponibili a riconoscere la possibilità della differenza dell’altro.

«La tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana» (Voltaire, Traité sur la tolérance, 1763).

E perché questo accada è fondamentale che nel terreno ci sia un elemento: la fiducia. Questa permette, a partire dalla relazione presente, di fare la scommessa sul futuro di cui parlavamo poche righe più su. 

© Sharon McCutcheon _ Unsplash

Le esperienze umane sono molteplici: c’è chi ha una “super-fiducia”, atteggiamenti positivi istantanei verso l’altro, uniti a una propensione immediata a credere e a investire nella relazione.

Una configurazione resa possibile da un mix di fattori: predisposizione psicologica individuale alla fiducia nell’altro, esistenza di regole e strutture, elementi istituzionali, che garantiscono la relazione fiduciaria.

Quando mancano inizialmente questi elementi, la fiducia può comunque maturare. Il buon esito di questo processo dipende  dal coinvolgimento, da intensità emotiva e cognitiva e dalla disponibilità delle persone a giocarsi in una relazione cooperativa.

La fiducia evolve nelle relazioni sociali in modi diversi e per stadi successivi. E’ anche possibile che una prima fase si basi su una valutazione meramente funzionale rispetto agli interessi (calcolo); a cui segue una seconda, basata sulla conoscenza e prevedibilità dell’altro (affidabilità); processo che termina quando desideri e intenzioni iniziano a coincidere (co-identificazione).

© Jacqueline Munguia _ Unsplash

Con queste premesse, che rendono ragione di una visione che sottolinea l’importanza del gruppo, dell’essere parte di uno o più sistemi e contribuire a crearne e modificarne le dinamiche, la comunicazione, gli eventi, possiamo addentrarci più specificatamente nella cornice di quelli che sono i risvolti positivi della collaborazione.

L’attuale contesto sociale e professionale occidentale – e quello italiano non ne è esente – è ancora molto incentrato sul singolo e sulle prestazioni individuali, sul motto “chi fa da sé fa per tre”. Questo tipo di approccio favorisce un clima di competitività tra le persone che si riflette tanto nei rapporti umani quanto in quelli professionali e sul mercato.

Stanno aumentando le riflessioni sul tema della collaborazione e della condivisione, crescono esperienze in cui le persone si mettono in comune ma il concetto “l’unione fa la forza” resta ancora in parte astratto e poco praticato. In realtà, come ha spiegato esaustivamente il nostro Avvocato Emiliano Riba nell’articolo Reti d’impresa agricole: strumenti per aumentare la sostenibilità, questo tipo di approccio è miope se pensiamo alle numerose realtà imprenditoriali, di piccole e medie dimensioni, e alle altrettanto innumerevoli difficoltà che queste incontrano per rimanere competitivi sul mercato.

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© Nicolas Hoizey _ Unsplash

La grande presunzione di fondo è di credere che il singolo possa bastare a se stesso, potercela fare sempre da soli e di essere migliori di altri, migliori nel proprio campo.
La psicologia ci dice altro, ossia che l’essere umano non può prescindere dall’altro/i e dalle relazioni in cui è immerso, dalle interazioni con altri simili da cui trae il proprio benessere psicologico.
Ed è anche poco credibile che una persona possa essere capace di fare tutto, di bastare a se stessa o che un’impresa possa essere specializzata in ogni campo dello scibile umano.

Una visione, in effetti, aderente al modello proposto dalla nostra società che solletica la cosiddetta onnipotenza infantile, un senso di sé che esperisce il bambino in cui si sente felice, forte, potente. Una società che incoraggia il singolo a sentirsi onniscente, competente su tutto, sprezzante dell’altro perché questi non è importante per la propria crescita, il benessere, la vita sociale.
In questo tipo di società – in modo particolare nel mondo del mercato – la collaborazione può essere considerata un rischio nel timore di perdere qualcosa. 
In effetti, collaborare implica necessariamente la disposizione d’animo a perdere qualcosa: condividere qualcosa di sé in termini di emozioni, sentimenti, bisogni, storia, significa metterli nelle mani dell’altro, non averne più la totale proprietà; condividere competenze, strumenti, mezzi, conoscenze, in termini pragmatici, significa perderne l’esclusiva. Collaborare è un gioco costante per trovare un accordo, un punto di contatto con l’altro, cedendo qualcosa di proprio per prendere qualcosa dell’altro.
In una società tendenzialmente individualista e in un mercato competitivo, collaborare si trasforma talvolta in un approccio votato al prendere dall’altro in un’ottica di non reciprocità: rubare idee, conoscenze, contatti, “farsi le scarpe”. Prendere senza dare.
E’ necessario fare un passo indietro, con la mente, e ritornare alla condizione infantile e recuperare il significato pregnante della collaborazione, dello stare in relazione: senza l’appartenenza e la partecipazione a un sistema, a una relazione, l’essere umano non è; la relazione – e soprattutto una relazione collaborativa e positiva – è fondamentale per l’essere umano ed è ciò che gli permette la crescita.

Come abbiamo scritto a inizio articolo, mettere al centro la componente relazionale, non significa tralasciare o non valorizzare gli individui che partecipano a quella relazione. E in una relazione collaborativa, identità e interessi individuali devono essere salvaguardati e valorizzati.

Ma affinché tale relazione funzioni, è auspicabile che ci sia un allineamento, soprattutto degli interessi.

Quando questo accade, ossia gli interessi del singolo e quelli del gruppo sono allineati, la collaborazione permette di raggiungere risultati considerevolmente migliori, rispetto a quelli che il soggetto può ottenere agendo da solo, aumentando il senso di soddisfazione e la fiducia reciproca. Di contro, se questo allineamento di interessi non si ottiene, tolleranza e fiducia rischiano di consumarsi. 

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Ecco dunque che le relazioni collaborative hanno insita una sfida adattiva: trovare l’imperfetto allineamento degli interessi dei singoli e riuscire a modificarlo positivamente. Partendo dal presupposto che tutti guadagnano qualcosa dallo scambio e dalla relazione e non che qualcuno tragga vantaggio a scapito di altri. Collaborare è un gioco speciale, con tempi particolari, in cui il guadagno e la perdita sono condivisi e si fanno insieme.

E come per l’individuo, anche per un’azienda, la collaborazione più che un ostacolo, può diventare un grimaldello positivo per la crescita, lo sviluppo, il guadagno. Per movimenti generativi piuttosto che mortiferi come lo sono quelli del potere di uno sull’altro.

Collaborare, condividere, vivere le relazioni in un’ottica di scambio piuttosto che di sfruttamento, ha dunque dei reali benefici: distribuzione equa di risorse e lavoro, migliori risultati per uno sforzo minore, condiviso; risoluzione dei problemi più semplice e rapida perché frutto della messa in circolo di più idee, soluzioni, frutto di una co-costruzione. 

Grazie alla collaborazione, in qualche modo, anche i fallimenti o le fatiche perdono peso: il gruppo, l’essere insieme, genera spazi di condivisione in cui poter condividere le frustrazioni e trovare, insieme, nuove soluzioni; fornisce un ascolto e un supporto emotivo e magari, perché no, anche pratico. Inoltre, eventuali fallimenti o il non raggiungimento di alcuni obiettivi, è ripartito tra tutti gli elementi di un sistema: il senso di fallimento individuale diminuisce, il senso di colpa e inadeguatezza sono minori.

Quando si collabora, il carico psicologico sui singoli si abbassa: ansia, demotivazione, preoccupazione, depressione, sono decisamente minori.

Aumenta il know how individuale grazie allo scambio di conoscenze, metodi diversi di lavoro, competenze e abilità.

E ancora riduzione dello stress, emozioni positive che aumentano la voglia di fare e dunque, se pensiamo all’ambito lavorativo, anche la produttività delle imprese e la soddisfazione.

L’essere parte di un sistema ed esperire rispetto a questo emozioni e sentimenti positivi aumenta i livelli di serotonina, endorfine, ormoni che mantengono quella sensazione di benessere; essere partecipi di un sistema e viverne attivamente e positivamente le relazioni, aumenta il senso di autostima e di autoefficacia del singolo perché contribuisce alla propria crescita individuale e ciascuno diventa fondamentale per lo sviluppo positivo dell’ecosistema di cui fa parte e a cui si sente connesso a livello relazionale/umano.

© Stephan Valentin _ Unsplash

Per concludere, è importante avere una visione realistica e non romantica della collaborazione perché questo modo di stare insieme è faticoso, soprattutto quando, come nel nostro tempo, è in netto contrasto con le logiche di mercato, i modelli culturali che respiriamo fin dalla nascita. Benché l’essere umano sia parte di innumerevoli sistemi fin dalla nascita e si nutra di relazioni, stare in esse, avere fiducia, darsi all’altro, non è affatto scontato e richiede un gran lavoro individuale.

Ma al netto delle difficoltà intrinseche dello stare insieme, i benefici della cooperazione, a livello individuale e sociale, sono molteplici. 
Ma sono tali a patto di “lavorare” insieme, a patto di collaborare.

Termine che porta con sé, etimologicamente, tanto gli aspetti di fatica (lavoro, sforzo della pratica) quanto quelli di desiderio, che ritroviamo nella radice semantica più antica e nel suo senso figurato: labh, afferrare e volgere il desiderio verso qualcosa. 
Un processo sociale, quello della collaborazione, di cui si conosce la fatica che implica ma anche l’energia potente, condivisa, che mobilita in vista di un risultato/desiderio più grande, per tutti, che ricompensa gli sforzi.

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