2 Agosto 2021 / Lavoro

La mobilità come misura dello sfruttamento

Per lavorare i braccianti del XXI secolo si spostano più volte. La prima, quella della migrazione internazionale, con un viaggio lungo e insidioso che li sradica dalla loro terra per scaricarli, vite prive di identità e di diritti, in una terra a loro ignota che li reclama perché ha bisogno delle loro cure ma non li accoglie, e li relega in una condizione di paria dalla quale è faticoso, e non sempre possibile, emergere. L’ultima, ricorrente e di breve tragitto, li sparpaglia lungo strade secondarie per raggiungere i campi coltivati dove si consuma la loro giornata lavorativa di 10 e più ore per la misera paga di 3-4 euro l’ora, da dividere con intermediari spesso privi di scrupoli e non di rado malavitosi. Tra le due se ne inseriscono altre per inseguire il lavoro stagionale lungo direttrici nord-sud ed est-ovest nei trenta e passa distretti agricoli italiani. 

Il lavoro sta sempre da un’altra parte, te lo devi andare a cercare sempre da un’altra parte. Ho fatto su e giù per andare a cercarlo, ho raccolto i frutti dorati degli alberi e dopo qualche settimana ero di nuovo per strada. Ti dobbiamo mandare via, mi dicevano, il lavoro adesso sta da un’altra parte e io mi mettevo per strada e andavo a cercarlo. Ho imparato che il lavoro sta sempre da un’altra parte e te lo devi andare a cercare e appena lo hai trovato non c’è già più, devi raccogliere i tuoi quattro stracci e andare da un’altra parte perché lì dov’eri non ti puoi più fermare perché non ti vogliono più. A un certo punto ho deciso. Mi sono detto: Non mi sposto più, sto qui e se il lavoro non c’è rimango lo stesso e se non mi vogliono resto lo stesso, anche se poi mi sparano addosso. (tratto da Nero di rabbia)

In tutti i casi se la mobilità è il paradigma, molteplici sono le dimensioni chiamate in causa: la gestione dei flussi migratori da parte dell’Unione Europea, il tipo di accoglienza dei migranti nel nostro Paese con riferimento agli aspetti giuridici, alle condizioni materiali di vita e di lavoro. 

Tralasciamo in quest’articolo la dimensione internazionale (ripartizione dei flussi migratori tra i Paesi UE) e quella nazionale (questione dei permessi di soggiorno e della prima accoglienza; carenze strutturali del sistema di collocamento pubblico) per concentrarci soprattutto sulla dimensione locale che registra deficit strutturali ad ampio spettro. 

In base ai dati forniti dall’INPS, i lavoratori dipendenti impiegati nelle campagne italiane superano 1 milione di addetti; di questi, l’11,4% sono stranieri residenti in Italia.  I dati ufficiali, tuttavia, non fotografano la realtà effettiva, essendo noto e ampiamente documentato l’impiego di un gran numero di lavoratori irregolari, soprattutto migranti: il CENSIS nel 2019 li stimava intorno alle 220.000 unità, con tassi di incremento crescenti negli ultimi anni che agevolano la diffusione di posizioni lavorative non protette e si riflettono sul gap salariale tra lavoratori regolari e irregolari. Secondo le ultime analisi del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF), in agricoltura, dato il salario orario regolare pari a 10 euro, quello corrisposto in media a un lavoratore dipendente irregolare è inferiore a 4 euro (per saperne di più).

La numerosa platea del lavoro stagionale, prevalentemente composta da manodopera immigrata con e senza permesso di soggiorno, è quella che maggiormente subisce le precarie condizioni di vita connesse alla mobilità sopra richiamata. Tale condizione è causata soprattutto dall’azione combinata delle seguenti cause: la carenza di alloggi, la mancanza di servizi pubblici di trasporto, la carenza di altri servizi igienici e di approvvigionamento alimentare, l’organizzazione del reclutamento e la difficoltà da parte delle amministrazioni locali di contrastare lo sfruttamento.

Nel grafico del Ministero del Lavoro, riportato qui sotto, una puntuale sintesi della situazione.

© Ministero del Lavoro

Gli insediamenti dei braccianti stagionali sul territorio sono, in genere, precari e inadeguati. Si formano quasi per germinazione spontanea nelle campagne, vere e proprie baraccopoli nei pressi di qualche fabbricato dismesso, lontane dai centri urbani, prive di servizi e di qualunque comfort, dove si organizza come può l’esistenza dei migranti richiamati dal miraggio di un contratto di lavoro temporaneo. Tristemente famosi sono diventati gli insediamenti di Borgo Mezzanone in provincia di Foggia, di S. Ferdinando nella piana di Gioia Tauro in Calabria, quello di Nardò in provincia di Lecce (dismesso ormai da qualche anno), ma sono solo la punta di un iceberg che affonda nel mare della proliferazione dei piccoli ghetti e dell’occupazione di casolari abbandonati, dispersi nel profondo delle campagne. 

Un argine a tale disagio, foriero di altri e non meno gravi effetti, sono le pratiche di accoglienza in azienda e nei centri organizzati da associazioni di volontariato le cui iniziative e proteste hanno sollecitato l’intervento di Comuni e Regioni per contrastare l’insostenibile situazione, indegna di un Paese civile e prospero qual è il nostro. Esse, tuttavia, con l’esclusione di quelle più consapevoli organizzate dal volontariato, presentano un limite evidente, e forse inevitabile, alla luce dell’attuale legislazione sui permessi di soggiorno: le strutture di accoglienza finanziate con fondi pubblici sono fruibili solo da migranti forniti di regolare permesso di soggiorno ed escludono gli altri. E comunque sono poche e non adeguatamente diffuse sul territorio nazionale.

Ne consegue che la maggior parte dei lavoratori stagionali non usufruisce di strutture di accoglienza idonee ed è costretto a frequentare i ghetti, grandi o piccoli che siano, dove si sperimentano situazioni di degrado e di assoggettamento insostenibili e non contrastabili. Che il degrado sia insostenibile è evidente solo che si dia uno sguardo non indifferente alla realtà fattuale, alle condizioni in cui è organizzata la vita dei lavoratori ristretti nei ghetti; meno evidente risulta la condizione di assoggettamento, la quale però è incisiva e stringente come un cappio intorno al collo. L’assoggettamento, un ulteriore gradino nella scivolosa discesa del girone infernale in cui sono costretti i braccianti stagionali (prevalentemente subsahariani), è conseguenza diretta delle precarie condizioni di vita del ghetto (mancanza di servizi pubblici di trasporto, carenza di altri servizi igienici e di approvvigionamento alimentare, organizzazione del reclutamento), delle quali approfitta uno stuolo di intermediari (i cosiddetti caporali e non solo) che si presentano come ingranaggi imprescindibili del processo organizzativo dell’avviamento al lavoro e della traduzione quotidiana dal ghetto ai campi di lavoro. Ed è per questo che la situazione oltre che insostenibile è anche incontrastabile.

«Il termine caporalato si riferisce al sistema illecito di intermediazione e sfruttamento della manodopera da parte di intermediari illegali (chiamati “caporali”) che reclutano la forza lavoro. Una caratteristica cruciale di questo sistema è il monopolio del sistema dei trasporti, che costringe i lavoratori a pagare denaro a un trasportatore privato informale per fare i pendolari da e verso il luogo di lavoro (a volte baraccopoli remote) e lontano dal luogo di lavoro» (Il sistema del caporalato in Italia).

Tra i fattori di rischio che secondo il “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020 -2022” agevolano il fenomeno del caporalato e determinano un’alta incidenza dello sfruttamento lavorativo si annoverano:

  • un’accentuata stagionalità del lavoro;
  • il massiccio impiego di manodopera per brevi periodi e in luoghi isolati rispetto ai centri abitati;
  • servizi di trasporto e alloggio inadeguati alle esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici del settore;
  • la precaria condizione giuridica di diversi lavoratori migranti.

Poiché i primi due fattori di rischio sopra indicati non sono realisticamente modificabili, è necessario agire sui restanti e, in particolare (fatti salvi gli interventi in sede giuridica che pure non mancano: si veda, tra gli altri la Legge n. 199 del 29 ottobre 2016 recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”) sui servizi di trasporto e sugli alloggiamenti.

Se, come accennato all’inizio dell’articolo, la mobilità è il paradigma del modello di sfruttamento dei lavoratori agricoli stagionali, su di essa si è sviluppata un’interessante riflessione che ha aperto la strada a utili iniziative sostenute dall’attivismo di associazioni di volontariato, da cooperative sociali, e finanziate dalle Regioni. 

© Paolo Saglia

Sulla base dell’esperienza di una ONG tedesca la quale, con il progetto Bikeygees, dal 2015 offre corsi sull’uso della bici alle donne rifugiate, che acquistano così la possibilità di spostarsi autonomamente, anche in Capitanata nel 2019, finanziato con 50.000 euro dalla Regione Puglia, è partito un progetto per l’acquisto di biciclette da fornire ai lavoratori stagionali immigrati come forma di contrasto al caporalato. 

«Possedere una bicicletta per i lavoratori della Capitanata significa molto più che potersi spostare in autonomia, aspetto comunque di fondamentale importanza considerando che i luoghi dove risiedono sono fuori dai tessuti urbani e che spesso devono coprire distanze considerevoli per accedere ai servizi di base; significa poter raggiungere il posto di lavoro senza dover dipendere dal caporale e dal suo servizio di trasporto»  (di Elena Tarsi).

In realtà, fornire biciclette agli immigrati è quanto da sempre si fa informalmente attraverso il passa parola un po’ dappertutto in Italia e non è infrequente incrociare per strada immigrati che pedalano, d’estate e d’inverno, alla ricerca di un lavoro lungo le strade di campagna o al mattino e sul far della sera per recarsi al lavoro o far rientro nelle proprie dimore. 

Fornire bici però non è sufficiente. Il discorso deve coinvolgere un secondo livello: quello del trasporto pubblico collettivo, come è avvenuto a Cerignola, in Capitanata, nel 2020, dove è stato avviato #AGoGo, un progetto pilota di mobilità etica promosso dall’Associazione Alla Giornata a favore di tutti i lavoratori migranti impegnati in attività agricole stagionali, che utilizza un servizio navetta (la navetta della dignità) da e verso i luoghi di lavoro.

© Associazione Alla Giornata

«#AGoGo nasce da un’esigenza reale, riscontrata a seguito del confronto con aziende agricole pugliesi in merito alla gestione dei lavoratori, soprattutto stagionali e si propone di contrastare la sempre più massiccia presenza di trasportatori abusivi o illegali che, soprattutto durante le fasi di picco di lavoro stagionale in agricoltura, lucrano sulle retribuzioni dei lavoratori». 

Il prezzo del servizio è conveniente (non gratuito) in quanto l’iniziativa mira anche a generare lavoro per 10 driver.

Iniziative analoghe sono state avviate in altri distretti rurali (a Casa Sankara nell’agro di S. Severo – FG, a Nardò – LE, in provincia di Taranto, nell’Agro Pontino – LT), ma restano iniziative sporadiche e precarie che, peraltro, non realizzano l’obiettivo e non hanno dato gli esiti sperati. 

Come riferisce la ricercatrice Elena TARSI nell’articolo sopra citato: «I braccianti non utilizzano il trasporto, né le aziende agricole fanno richiesta dei finanziamenti disponibili. Le motivazioni sono molteplici e riconducibili principalmente ai seguenti fattori. Prima di tutto alla mancanza di capillarità del servizio di trasporto che quindi per alcuni lavoratori non era una soluzione viabile. In secondo luogo il servizio è accessibile solo ai lavoratori con permesso di soggiorno regolare e regolare contratto di lavoro: questo è forse il più grande limite visto che i pochi che si trovano in questa condizione sono gli unici non suscettibili al caporalato, oltre ad essere generalmente già organizzati con un mezzo dell’azienda o con la bicicletta. Il problema invece resta per tutti gli irregolari che diventano mano d’opera sfruttabile. È chiaro quindi – conclude lo studio – che senza un intervento serio a livello nazionale sulla questione della presenza dei lavoratori irregolari nel nostro paese, che speriamo arrivi presto, le iniziative a livello locale devono orientarsi su altre strategie, più flessibili».

Quali debbano essere queste strategie è scritto a chiare lettere in molti documenti, saggi e articoli; tra gli altri anche nel citato “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020 -2022” del Ministero del Lavoro, dove si individuano con chiarezza le problematiche, i rischi e i rimedi.

Attuare il piano e modificare la legislazione vigente, soprattutto con riguardo alla situazione giuridica dei migranti e all’emersione di quelli privi di documenti di soggiorno, è competenza della politica. Sta al Governo, alle Regioni e ai Comuni l’onere di provvedervi al più presto.

Antonio ELIA

Ex Docente di Economia

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