31 Maggio 2021 / Lavoro

La vita dei migranti tra campi e questure

Da sempre l’essere umano, da quando cammina su questa Terra, si sposta. Per trovare terre più fertili in cui stanziarsi, pascoli più ricchi per i propri animali o zone più sicure in cui creare villaggi e città. L’uomo emigra, si sposta per cercare luoghi in cui vivere meglio, per curiosità, per conoscere. Da sempre lo fa e continua a farlo tuttora: qualcuno per diletto, prendendo un aereo per conoscere paesaggi e culture esotiche, qualcun altro per necessità fuggendo da guerre o carestie o per migliorare le proprie condizioni di vita, raggiungere parenti emigrati precedentemente.

L’Italia è un paese di emigrazione e immigrazione: quello degli italiani è stato il più grande esodo della storia moderna. Tra il 1861 e il 1985 quasi 30 milioni di connazionali hanno lasciato il paese d’origine. Il primo periodo – definito Grande Emigrazione – iniziato con l’Unità d’Italia (1861) e terminato con l’ascesa del fascismo, ha interessato prevalentemente il Nord Italia e Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte hanno fornito, da sole, il 47% del totale di emigrati; il secondo periodo – la Migrazione Europea – è avvenuto tra la fine della Seconda Guerra Mondiale (1945) e gli anni Settanta del XX secolo e il primato migratorio è passato alle regioni meridionali. Una terza ondata migratoria ha nuovamente coinvolto l’Italia: la Nuova Emigrazione – la “fuga di cervelli” – cominciata all’inizio del XXI secolo, ha coinvolto prevalentemente i giovani, spesso con un livello di scolarizzazione alto rispetto agli emigrati delle due ondate precedenti. Si stima che gli italiani residenti all’estero, emigrati a seguito della crisi economica mondiale iniziata nel 2007, siano quasi 5 milioni (AIRE 2017) e vi sia stato un incremento pari al 60% in un decennio (2006 – 2017) 1.

Le cause principali dell’emigrazione italiana sono state povertà, contratti di lavoro iniqui, specialmente in ambito agricolo, problemi politici interni, insicurezza causata dalla criminalità organizzata. L’obiettivo era trovare condizioni di vita migliori: meno povertà, più sicurezza, più libertà per le proprie idee politiche, minor sfruttamento lavorativo. 

Emigravano i poveri e piccoli proprietari terrieri e i viaggi erano “della speranza” per tutti; così come per tutti, l’accoglienza era fatta di pregiudizi e difficoltà: trovare lavori dignitosi, affittare le case, regolarizzarsi e integrarsi.

© Trieste News

L’Italia è interessata anche dal fenomeno dell’immigrazione e il nostro paese è porto di approdo di molti migranti.

Nel nostro paese siamo poco più di 60 milioni e di questi circa 5 milioni sono immigrati residenti e apolidi (8% della popolazione totale). I richiedenti asilo erano 43.770 e 35.005 alla prima richiesta di protezione internazionale (2019) e i rifugiati circa 167.000 (2018), ossia lo 0,27% del totale.
Le politiche europee sulla migrazione non hanno facilitato l’inclusione sociale e lavorativa dei migranti. Dalla fine degli anni ‘90, sono state adottate dagli Stati membri politiche migratorie sempre più restrittive così che i canali legali di ingresso nei paesi dell’Unione Europea sono diminuiti.
Nel 2015 – con l’Agenda Europea sulla migrazione – c’è stata un’ulteriore svolta restrittiva: una manovra per fronteggiare le tragedie in atto nel Mediterraneo affrontando le cause della migrazione in cooperazione con i paesi di origine dei migranti e quelli di transito. La chiusura delle frontiere o i respingimenti derivati e l’assenza di canali legali e sicuri di ingresso in Europa, non hanno ridotto i flussi migratori irregolari bensì favorito la tratta e il traffico di migranti

Per entrare nel territorio nazionale, la politica italiana prevede anche un altro sistema di ingresso per i lavoratori stranieri, basato su un meccanismo a chiamata: un datore di lavoro fa richiesta, a distanza, di manodopera; attraverso il Decreto Flussi, il nostro Governo stabilisce il numero di persone che possono entrare nel nostro paese, le quote di lavoratori per le varie categorie, i tempi e le modalità per fare richiesta.
Questo sistema è insufficiente: i numeri sono bassi e non bastano ad arginare il fenomeno dell’immigrazione clandestina; è inoltre complicato ed è stato usato principalmente per regolarizzare i lavoratori stranieri già presenti in Italia senza riuscire a soddisfare i bisogni. 
Un sistema di ingresso efficace per i lavoratori (o potenziali tali) stranieri assente, una riduzione drastica dei canali di ingresso regolare, la richiesta di asilo come via quasi a senso unico per ottenere uno status legale: se per entrare nel nostro paese (o in Europa) si deve passare per questo sistema, lo stesso si intasa per un eccesso di richieste e l’inadeguatezza delle procedure di asilo e dei sistemi di accoglienza. In questo modo si formano sacche di uomini e donne vulnerabili, manodopera facilmente ricattabile e sfruttabile per settori quali l’agricoltura.

Il lavoro in agricoltura è duro, faticoso
Storicamente, in Italia, il lavoro dei braccianti è stato caratterizzato da condizioni di lavoro precarie e relazioni di grave sfruttamento. Di conseguenza, da sempre questo tipo di lavoro ha comportato proteste, scioperi, battaglie per il riconoscimento e la tutela dei diritti sul lavoro.

Le condizioni in agricoltura sono cambiate negli anni: i processi di industrializzazione e di terziarizzazione dell’economia hanno portato a una riduzione del numero di impiegati in agricoltura negli ultimi 60 anni e, parallelamente, a una sostituzione della manodopera. I lavoratori agricoli sono sempre stati coloro che, appartenenti ai ceti meno abbienti e meno sindacalizzati, si vedevano costretti ad accettare condizioni di lavoro meno dignitose: prima i migranti interni, dal sud verso il nord, poi le donne, ora – all’incirca dagli anni ‘90 – gli stranieri.
Il continuo ricambio della forza lavoro deriva dalla convenienza economica a reclutare manodopera con meno diritti, meno privilegi. Con la monocoltura e la intensivizzazione del mondo agricolo, le aziende agricole hanno sempre più bisogno di tanta manodopera per un breve lasso di tempo, da reperire velocemente e non necessariamente formata, soprattutto durante la stagione della raccolta.

© Wine News

La stagionalità, la precarietà, la necessità di spostamenti veloci, l’informalità nel reclutamento e nei rapporti di lavoro, la fatica contraddistinguono questo tipo di lavoro acuendo le condizione di vulnerabilità dei lavoratori agricoli, specialmente migranti. 
Ricattabilità e vulnerabilità causate anche dal sistema normativo che regola la migrazione legando in modo indissolubile la possibilità di permanenza legale nel nostro paese alla condizione lavorativa, ossia il permesso di soggiorno a un contratto di lavoro.

Per i richiedenti asilo la situazione è ancora diversa: le procedure burocratiche per il riconoscimento della protezione internazionale sono molto lunghe (in media 13-14 mesi, che possono arrivare fino a 3-4 anni in caso di ricorso) e i sistemi di ospitalità e tutela sono inadeguati. Così si alimenta una condizione di incertezza e precarietà che contribuisce ad accentuare la condizione di vulnerabilità e, di conseguenza, il rischio di sfruttamento. Una vulnerabilità esacerbata, almeno fino all’intervento normativo del 21/10/2020 (d.l. Lamorgese n. 130/2020), dalle disposizioni dal “Decreto Salvini” 2, che sostanzialmente aboliva il permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza tuttavia fornire una forma di protezione alternativa.

Questo ha provocato un aumento esponenziale del numero di persone in condizioni di precarietà, conseguentemente ancora più esposte al rischio di sfruttamento lavorativo.
Sempre in linea con un approccio emergenziale e non strutturato all’immigrazione, le disposizioni del d.l. Salvini, escludevano i richiedenti asilo dal Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati  (SIPROIMI), finalizzato all’inclusione sociale e lavorativa dei migranti, relegandoli nei centri governativi di prima accoglienza o nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), spesso sovraffollati, con precarie condizioni sociali, igieniche e di sicurezza. 

A tale situazione ha parzialmente posto rimedio il d.l. Lamorgese, che ha, da un lato, riconosciuto una forma di protezione ai migranti che abbiano conseguito in Italia un apprezzabile inserimento sociale e lavorativo, dall’altro,  reinserito la categoria dei richiedenti asilo tra quelle beneficiarie del SAI (il nuovo Sistema di Accoglienza e Integrazione), pur escludendoli dai servizi di secondo livello (finalizzati alla formazione professionale e alla ricerca del lavoro) destinati solo a chi abbia già conseguito una forma di protezione.

© La Gazzetta del Mezzogiorno

Per tutti i  migranti, non solo per i richiedenti asilo, rimangono aperte alcune importanti problematiche in relazione alla strettissima connessione tra attività lavorativa e permesso di soggiorno: se non esiste un contratto (lavoro nero), o se le giornate effettivamente lavorate sono nettamente superiori a quelle dichiarate dal datore di lavoro in busta paga (lavoro grigio), difficilmente i lavoratori migranti riescono a regolarizzare e stabilizzare la loro presenza nel nostro paese (per saperne di più su lavoro nero e grigio).

Nei casi meno gravi, le giornate lavorative dichiarate potrebbero non essere sufficienti ad accedere al sussidio di disoccupazione, con la conseguente mancanza di mezzi di sussistenza nei periodi di fermo delle attività agricole. 

Nei casi più gravi invece, lo straniero potrebbe trovarsi nella condizione di non poter più rinnovare il proprio titolo di soggiorno. Per poter essere rinnovate, alcune tipologie di permesso di soggiorno richiedono la dimostrazione di un reddito sufficiente (parametrato sulle tabelle dell’assegno sociale INPS) attraverso l’esibizione di contratti e buste paga. In mancanza di un contratto regolare, lo straniero non può provare la propria condizione reddituale e, conseguentemente, è esposto al rischio di non riuscire a rinnovare il proprio permesso di soggiorno, tornando ad una condizione di irregolarità non più dal solo punto di vista lavorativo, ma anche in relazione alla propria permanenza sul territorio italiano.

Ciò che si crea, nella maggior parte dei casi, è un circolo vizioso: il lavoro irregolare compromette la regolarità del soggiorno e l’irregolarità del soggiorno impedisce l’assunzione regolare.

Ma intorno a documenti e lavoro c’è tutta l’umanità di una persona che è fatta di relazioni, quotidianità, diritto alla casa, a una vita dignitosa non soltanto per ciò che concerne il lavoro.
Non avere i documenti in regola o un contratto regolare o una busta paga da mostrare comporta, inevitabilmente l’impossibilità di accedere all’affitto di un’abitazione degna d’essere chiamata tale. 
Non avere una casa porta le persone (migranti lavoratori o in cerca di occupazione), a vivere in luoghi di fortuna: sotto i ponti, nelle stazioni, nei ghetti spontanei o in quelli istituzionalizzati che nascono per far fronte alle emergenze, che hanno un inizio ma non una fine (San Ferdinando in Calabria, Borgo Mezzanone in Puglia, Saluzzo, in Piemonte).
Vivere nei ghetti o in tanti in una piccola casa, abitare in luoghi insalubri, sono condizioni che ledono la dignità delle persone, incidono negativamente sull’identità di un singolo e di un gruppo, sull’attaccamento al luogo minando la possibilità di sentirsi a casa e accolti nel luogo in cui si è scelto di emigrare. Queste condizioni minano l’autostima, i numerosi progetti di assistenza in risposta alle emergenze generano una diminuzione del senso di autoefficacia e portano le persone ad assumere un atteggiamento passivo, depressivo alimentando il circolo vizioso.

Circolo vizioso ulteriormente minato dal contesto sociale e culturale nel quale queste persone vivono.
Un contesto – che è clima politico, relazione, emozioni – che non è accogliente, che ha paura: delle differenze, della precarietà, di ciò che non è conosciuto. E su cui qualcuno soffia alimentando timori e aumentando distanze. 

La distanza è un vuoto di dialogo, di significati condivisi e condivisibili perché, anziché unire, i discorsi costruiti intorno a questo tema e le condizioni reali di vita sono divisivi, e i vuoti sono riempiti da pregiudizi che accentuano le differenze anziché costruire punti di comunione.
Ecco allora che anche quando ci sono contratti di lavoro e documenti in regola, molti migranti non riescono ad affittare una casa perché “non si affitta agli stranieri”. Non è più scritto sui cartelli come ricordano ancora molti emigrati del Sud Italia arrivati in treno nelle città del Nord con le loro valigie di cartone. Il messaggio non è esplicito, il politically correct non lo permette e il razzismo, la paura, la distanza si fa più implicita, più subdola. Ma serpeggia e alimenta la distanza e l’impossibilità di dialogo che polarizza le posizioni e crea autostrade tra i ghetti e i quartieri residenziali anche laddove, a separarli, ci sia soltanto una strada sterrata larga un passo.

1 www.emigrati.it; ISMU; ISTAT

2 Decreto-legge n. 113/2018 su immigrazione e sicurezza), adottato nell’ottobre 2018 e convertito con modificazioni nella legge n. 132/2018

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