L’emersione di queste nuove forme contrattuali si colloca nel contesto di una più ampia e progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro italiano, che ha preso avvio a partire dalla fine degli anni Novanta. Rimodulate in maniera più conveniente per il datore di lavoro, queste nuove forme contrattuali consentono di risparmiare sul versamento degli oneri retributivi e contributivi, essendo spesso utilizzate per celare rapporti lavorativi di tipo subordinato. La discrepanza tra prestazione svolta in concreto e quella descritta nel contratto favorisce l’ampliamento della “zona grigia” dell’occupazione e la diffusione di irregolarità, tra cui il superamento del monte ore stabilito nel contratto e l’inquadramento in mansioni non corrispondenti alle prestazioni effettivamente svolte, con le correlate pratiche sotto-retributive.
Talvolta le irregolarità non si limitano alla violazione della normativa previdenziale e giuslavoristica, ma possono sfociare in gravi forme di sfruttamento. È il caso del fenomeno delle finte cooperative sociali, che consiste nell’utilizzo della struttura societaria cooperativa per dissimulare un reclutamento di manodopera. In altre parole, i lavoratori sono costretti a registrarsi come soci piuttosto che essere assunti come dipendenti, e le loro prestazioni sono somministrate a committenti conniventi, all’interno di catene di appalto o subappalto.
Tale modalità di reclutamento e impiego della manodopera, anche noto come “caporalato grigio”, consente un cospicuo risparmio sul versamento degli oneri previdenziali e un significativo sgravio di responsabilità nell’esercizio dell’attività d’impresa.
In sostanza, anche il lavoro grigio può essere veicolo di sfruttamento del lavoro tanto quanto il lavoro nero e, talvolta, può assumere tratti più insidiosi rispetto a quest’ultimo, in quanto coperto da una parvenza di legalità fornita dalla presenza stessa del contratto di lavoro.